Diversi sono i miei lavori. Alcuni conclusi, altri ancora in corso d'opera, altri in procinto di vedere la luce, altri, ancora, piccoli embrioni, tracce di vita, semplici concetti che attendono, pazienti, di trovare un seguito, un'identità più strutturata. Molti di essi rimarranno però quel che sono: idee fugaci, semplici meteore apparse in un batter d'occhi ed altrettanto inavvertitamente svanite nel nero di un infinito big bang di pensieri.

domenica 6 giugno 2010

CAMOLA CON VISTA #002

2 aprile 2002

Insomma non è che uno nella vita abbia certe aspirazioni.
Nemmeno io ho deciso che da grande avrei fatto il commerciante di camole.
Mi sono laureato in lettere, inseguendo un sogno che ora non ricordo e ritrovandomi a redigere (per una paga da fame) le pagine pubblicitarie in un giornale settimanale di un paesino di provincia, con velleità e aspirazioni da scrittore, assolutamente disilluse e intrappolate sotto le ragnatele polverose e abbandonate, che confezionano i numerosi manoscritti del mio passato.

Poi un giorno il mio vecchio mi chiede se, per arrotondare, ho voglia di aiutare un amico a gestire il suo magazzino di vermi da pesca, mentre lui fa le consegne.
Perché no, mi dico io. In fondo col giornale non mi sfamo e ormai chi scrive più? Mi son stancato di alimentare le casse dell’ufficio postale, inviando risme di fogli pieni di lettere e parole, a cui nessun editore nemmeno si degna di rispondere un sincero e funereo commento, del tipo: “quello che scrivi fa schifo”.
E, se non ho più voglia di star lì a scrivere, di tempo libero ne ho a iosa. Ci sguazzo, mi ci rotolo e sollazzo, come una camola nella sua segatura, fin’al punto di non volerne più, di esser bolso di tutto questo tempo libero, proprio come il mio criceto.

E così in men’ che non si dica gli anni trascorrono nel magazzino a riassettar bigatti, setacciarli dalla segatura, in cui urinano defecano e si alimentano, confezionarli per i clienti, che li osservano con ghigno maligno, immaginando la trota o il pesce gatto che (son sicuri) pescheranno, di grandi, immense, memorabili dimensioni, dopo ore di lotta estenuante, riavvolgendo e mollando il mulinello, in un frenetico confronto, epico almeno quanto i racconti di Hemingway.
Son poi gli stessi clienti che più sommessamente tornano la settimana successiva ad approvvigionarsi, delusi dei risultati della domenica precedente, vergognandosi di una misera manciata di pesciolini non più gravi di un etto.
Anche loro, come me, partono con grandi aspirazioni e tornano confessando sciatti realismi. Per questo non li prendo in giro. E non ho deriso nemmeno Emilio, il mio capo, che per vivere vendeva bigatti. Che c’è di male! Qualcuno dovrà pur farlo.

Ad esser sinceri, quando il mio vecchio me lo chiese la prima volta lo guardai esterrefatto.
-Ma dai papà che lavoro è quello? Credo non esista nemmeno nel dizionario. C’è il benzinaio, l’agricoltore, il dentista, il macellaio … c’è pure il rapinatore. Ma non esiste il camolatore!
Però, in fin dei conti, è sempre meglio che il deratizzatore, il becchino o lo spurgatore, che, sì è vero, ci sono nel dizionario, ma richiedono uno stomaco anche più forte di quel che serve a mangiare il Mussakà.
Quindi Emilio non è da deridere solo perché viveva vendendo bigatti. E di questo me ne sono convinto, dopo un po’ che lavoravo con lui, quando, non resistendo alla curiosità, gli chiesi come gli fosse venuto in mente di mettere su quell’attività.
E la risposta fu assolutamente esaustiva:
-Mi son sempre piaciuti i bigatti. Ci giocavo fin da bambino. Mi ricordo mia madre che mi ostiava sempre perché li portavo a tavola … durante la cena … e li tagliavo di lungo per guardare che ci fosse dentro ... Ed erano bianchi come fuori. Sì sì … dentro o fuori un bigatto non cambia. Non è come una bella donna attraente che ti sa di sesso ... ti arrapa, ma, in fondo, se la apri dentro ci trovi lo stomaco, la milza, il pancreas le budella e poi … tutto quel sangue. No … i bigatti dentro son come fuori … bianchi … candidi. E poi son finito a fare il bidello … Non faceva per me lavare pavimenti, cambiare lampadine, staccare le gomme da sotto i banchi di scuola, pulire le lavagne, sturare i cessi ... A me la scuola non è mai piaciuta nemmeno da alunno. E allora mi son detto perché non allevare i bigatti. So farlo e in fondo è facile … e puzzano pure meno dei maiali. E poi … Guarda …
Sorridendo ne prese in mano una manciata.
-Vedi … si muovono in quel modo ridicolo, come se stiano ballando il twist … sono simpatici no? Con loro ti sembra di vedere il mondo dall’alto … Ti senti come un gigante che guarda tanti bambini che giocano nel cortile della scuola. Ma non fanno lo stesso chiasso. Poi se rompono … ti basta chiudere la mano … così … stringendo forte e loro squizzano senza opporre resistenza … guarda …
E lo fece: chiuse la mano a pugno con insistenza e quando dai lati iniziò a colare, lento, del liquame la riaprì con orgoglio, mostrandomi un purè di bianche viscere acquose.
Non avevo bisogno di ulteriori spiegazioni. Era stato veramente esaustivo ed anche un po’ inquietante.
Da quel giorno evitai sempre di dargli le spalle, anche se il suo comportamento immancabilmente cordiale, il suo fare lento e compassato, il suo sguardo placido e piacevole, il suo parlare pacato e sommesso, mi avrebbero dovuto rassicurare ampiamente, fugando qualsiasi dubbio su una qualche sua identità nascosta.
Eppure ogni volta che ripensavo a quella sua dichiarazione, a quell’esibizione di fredda inutile violenza un dubbio mi veniva, mi rodeva come un tarlo, stuzzicando macabre fantasie.

Diversi anni dopo, ormai ottantenne, Emilio se n’è andò.
L’ho trovai arrivando in magazzino di primo mattino, seduto all’ombra, nascosto alle prime luci del sole, che dall’alto inondavano il capannone di un soffuso tepore. Stava lì, vestito di una logora salopette verde da lavoro, guardando le sue camole, sereno, con la testa appoggiata alla colonna, le braccia incrociate sulle gambe e la solita sigaretta in bocca.
Capii che non era più tra noi, quando mi accorsi che la sigaretta era spenta e bruciata fin’al filtro. Me ne accertai dondolandogli più volte le mani davanti agli occhi, immobili, vitrei, tranquillamente assopiti guardando i suoi bambini giocare nel cortile della scuola.
Non aveva figli o parenti, nemmeno lontani e neppure tanti amici. Solo qualche compagno di briscola al bar. Comunque nessuno volle prendersi a carico quell’attività. Così continuai a farlo io, nell’attesa che qualche autorità decidesse un giorno il da farsi.

Iniziai a fare le consegne ai laghetti e ai negozi, lasciando solo il venerdì ed il sabato per i pescatori che compravano direttamente da me.
Fu una faticata. Mi dovevo alzare a ore impossibili, spesso incontrando sulla strada i fornai che rincasavano, e andavo al giornale solo al lunedì.
Giocoforza mi ero organizzato.

Il ricavato lo tenevo da parte prendendo solo la mia paga (chiaramente aumentata in proporzione alle ore in più di lavoro) ed il necessario per tenere in piedi quel posto e portare avanti l’attività.
Dopo due anni avevo messo da parte un bel gruzzolo. Ma per chi? Nessuno era venuto a riscattare l’azienda; nessuno si era fatto sentire; nessuno del Comune, nessun creditore. Il commercialista regolarmente mi diceva quanto pagare di tasse e anche il fisco sembrava essersi dimenticato di quella piccola incongruenza: l’attività commerciale aveva una sigla anonima (“La casa della camola”) ma l’unico titolare era morto.
Insomma sembrava che a tutti andasse bene così. O forse tutti si erano dimenticati che io non ero il proprietario. Ero il dipendente di un deceduto.

Dopo vent’anni dalla morte di Emilio un avvocato mi disse che quel posto era diventato mio, per una certa legge sull’usucapione (o qualcosa del genere, io sono laureato in lettere non in giurisprudenza) e che avrei dovuto chiedere al giudice di regolarizzare il mio diritto.
Così, adesso, mi ritrovo a quarantacinque anni, a raccontarvi che da scrittore fallito sono diventato un camolatore per caso, non per passione, ma per un curioso scivolare del tempo nei languidi meandri del dimenticatoio.

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